Massaggi di Natale - Massaggi a Milano

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Massaggi di Natale

Racconti - 18/12/15 - Autore: Massange
Scende quelle scale una volta all’anno. Una sola, il giorno di Natale, da vent’anni.
Ne aveva ventidue quando le scese per la prima volta. Un 25 dicembre ai tempi dell’università, medicina, i migliori anni. Un mese prima durante una lezione aveva sentito un collega parlare di una ragazza, appena maggiorenne, che cercava cavie. Da quel che aveva origliato, la tipa si era messa in testa di fare la massaggiatrice professionista, stava studiando le migliori tecniche orientali e cercava volontari per i “compiti a casa”. Era riuscito ad appuntarsi su un angolo del quadernone le 6 cifre del numero, senza nessuna intenzione specifica. Magari solo per riderne con gli amici alla pausa sigaretta.


 
 Il pranzo di Natale quell’anno durò più a lungo del solito. I parenti seduti intorno al tavolo avevano come da tradizione sviscerato uno a uno tutti i fatti di politica e cronaca accaduti e nel ’94 ce n’era di che sproloquiare e litigare. Nulla e nessuno che gli interessasse sul serio. Se qualcuno avesse accennato a Kurt e al fucile che si era messo in bocca pochi mesi prima, forse si sarebbe gettato anche lui nella mischia. Ma per fortuna non accadde - era così nervoso per l’ultima storia andata a puttane che avrebbe di certo risposto male a qualcuno e poi chi l’avrebbe retta sua madre – quindi rimase fino al dolce nascosto dietro a sorrisi di circostanza. Alle 5 con una scusa uscì a farsi due passi, lasciando qualcuno ancora a tavola. I piedi scollegati dal cervello lo portarono sotto casa della sua ex. Era già capitato che si fosse appostato, non si capisce bene a far cosa, in quella cabina telefonica dalla quale aveva una visuale perfetta del palazzo senza essere visto, credeva lui. E così fece di nuovo, tanti pensieri e tanto freddo quella volta nella cabina. Mani in tasca, tra le cento cartacce ne spunta una con un numero di telefono. Quel numero. Sorpreso, prima di buttarlo pensò alle alternative: vagabondare per la città, congelando, restare lì ad aspettare qualcosa di brutto o coprire pelle e pensieri con qualcosa di nuovo. Bastavano 200 lire.
Clik. Tanto figurati se risponde il giorno di Natale…
«Pronto!»
«ehm sì…buongiorno… anzi no, scusi, buonasera… mi chiamo… mmhh… Stefano. Potrei parlare con…»
«Ciao mmStefano, sono io!»  disse lei con quella bella voce da ragazzina già grande.
Un po’ di convenevoli, la presero larga ma alla fine «Un mio amico mi ha detto che…» e si accordarono per vedersi subito nel “studio” di lei. Ci stava lavorando senza sosta, allo studio, anche il giorno di Natale. Due stanze e un bagno in un sotterraneo di una zona allora ancora ben poco signorile.
 
Quando vide la ragazza non rimase stupito dal suo aspetto - piccolina, fintamente biondina, due occhi intensi alla cleopatra che facevano un po’a pugni con quel sorriso dolce e ingenuo – quanto del fatto di trovarla attraente, lui che era abituato a tutt’altro genere. Leggermente rotondetta, certo, ma quei i ganci in alto della salopette di jeans promettevano bene da quanto tiravano. Lo prese per mano: «Benvenuto, entra su, cos’ è hai paura? Dovrei averne io, non credi? Dai che ti spiego tutto». Entrò e visto il trambusto da lavori in corso, non sapendo cos’altro dire o fare, si offrì di aiutarla in qualche lavoretto. E nel tempo di spostare sei scatoloni, montare due tende, attaccare quattro mensole e uno specchio lei gli raccontò tutto. Di suo padre che se n’era andato di casa cinque anni prima, dei problemi di alcool della madre, del suo viaggio in Tibet appena compiuti i 18 anni, della sua conversione al buddismo e della “folgorazione”: uno che si faceva chiamare Sai qualcosa, probabilmente per plagiarla, le aveva fatto un massaggio “durato una notte intera”, l’aveva “fatta rinascere” e quello lei avrebbe voluto fare nella vita, “far rinascere la gente”, con i massaggi. Facile parlarne adesso, di viaggi in Oriente, di religioni, di massaggi. Allora erano cose ben strane. Cose da drogati. Tant’è che smisero presto di lavorare e si accesero una bella cannetta.
«Ti va di provare il mio massaggio? Dai, così poi mi dici com’è». Ormai era in trappola e dopo qualche resistenza poco convinta acconsentì. Si tolse il maglione, solo quello. Nonostante le insistenze di lei il freddo e ancor più la vergogna ebbero la meglio e sulla t-shirt dei Pearl Jam non cedette.  Non era ancora provvista di lettino, quindi la cosa avvenne per terra, con lui seduto gambe incrociate tipo fachiro, su un tappeto orientaleggiante che avrebbe meritato una scrollata, e lei dietro in ginocchio. Gli appoggiò le mani sulla testa, invitandolo a chiudere anche lui gli occhi e a rilassarsi. Il mangianastri mandava in maniera pretenziosa dei suoni di natura, il rumore della pioggia, del vento, del mare e lei provava a seguirne il ritmo con i polpastrelli, passandoglieli sul cranio, sul collo, sulle spalle, sul petto. Alternando forza e dolcezza. Se mai esisteva un massaggio del genere, le piccole mani compensavano la tecnica ancora acerba trasmettendo una passione senza confini, un’elettricità che folgora, come forse si trasmette e sente solo a quell’età. Il massaggio era bellissimo, nonostante la maglietta. E ancor più bello fu quando fu lei a sedersi tirando delicatamente indietro la testa di lui tra le sue gambe incrociate. Invitandolo ad un massaggio al volto, sempre ad occhi chiusi, e ad altri due tiri. E a parlare, stavolta lui. E lui lo fece come mai in vita sua.
Sulla porta lei lo ringraziò calorosamente, con un bacio sulla guancia che arrossì entrambi
«…e auguri per domani».
«Per cosa?»
«Non è il tuo onomastico?» chiuse sorridendo. 


 
Il ’95 fu un anno fantastico. Gli studi procedevano alla grande, feste, viaggi, ragazze. Quasi si dimenticò di lei. Doveva farlo, era della Milano bene, lui.  Ma il 25 dicembre, alla fine dell’ennesimo pranzo palloso, il desiderio di richiamare quel numero fu troppo forte.
«Ciao, ti stavo aspettando, vieni?». Rispose lei senza nemmeno dire pronto.
Era ancora più bella di come la ricordasse, con i capelli raccolti in due trecce infantili. E, per quanto incredibile, ancora più convinta della strada intrapresa. Anche lo studio era sensibilmente migliorato, pur nel solito disordine: pareti rosso fuoco, candele e libri un po’ ovunque. E un lettino professionale, di quelli con il buco, comprato a chissà quale fiera. Ci tenne a mostrargli i suoi progressi con il massaggio. Questa volta lui se la tolse la camicia, più che altro per non sgualcirla, le sequestrò lo spinello ancora spento e si lasciò andare alle sue mani. Come una brava scolaretta, mentre armeggiava convinta, lei gli spiegò tutto dei muscoli e delle ossa della schiena e di come quelle tecniche facessero parte di un qualche percorso di crescita spirituale. Lui però se ne perse gran parte di quella lezione, perché in un battibaleno cadde addormentato, e della grossa. Quando si svegliò era già ora di cena. Lei fece quella che se l’era un po’ presa, «ci vediamo una volta l’anno e vieni qui per dormire?» ma le passò subito. Si sbranarono con le mani un panettone intero, continuando a ridere come forse si ride solo a quell’età e prima delle nove lui se ne andò per un pokerino con gli amici. Sulla porta le fece i complimenti, per il massaggio e per lo studio.  «Quanti ti devo?».
«Grazie, mi hai già pagata» disse lei nel solito sorriso.
 
Tornò anche l’anno dopo. Sempre il giorno di Natale. E anche l’anno dopo ancora e quell’altro pure.  Non chiamava più prima, si presentava in cima a quella scaletta alle cinque in punto. Suonava e la trovava sempre. Sempre più bella, ogni volta con capelli e unghie di lunghezza e colore diverso. E sempre più brava. E parlavano, tantissimo, raccontandosi con la sincerità che può permettersi solo chi non ha legami. La vedeva crescere, esteticamente e nei discorsi. Ma anche in quella che era diventata, diceva lei con orgoglio, una professione. Continuava a studiare lei, filosofia di notte e tecniche di massaggio la mattina. I pomeriggi, raccontava, si teneva libera per i clienti, che grazie al passaparola diventavano sempre più numerosi e generosi. Sapeva massaggiare - dopo quattro anni le aveva concesso di dimostrarglielo anche sulle gambe - e ogni anno la trovava più capace e più colta, tanto da saper trasformare il massaggio in un’esperienza di rilassamento e piacere interiore veramente stupefacente. Ridevano e parlavano molto, anche senza maria, e lui cercava di spronarla, di darle il suo contributo con qualche consiglio da utente. Dopo essere stato al Cafè del Mar diventò anche il suo principale consulente musicale. Ci teneva soprattutto a darle consigli di sicurezza, la invitava ad essere prudente, a non fidarsi di nessuno.  «E se qualcuno ti rompe tu mi chiami che lo rompo io, siamo intesi?» le diceva ogni volta salutandola sulla porta. Ma era solo il suo modo di dirle che le voleva bene e che era un po’ geloso dei clienti. E lei, sorridendo, lo capiva.

Il Natale del ’99 fu il più intenso. Lei si era laureata in filosofia, da sola. Ma le prospettive in quel campo erano poche. Nemmeno sua madre c’era più. I massaggi invece andavano alla grande; alcune “professioniste” stavano aprendo un mercato ancora poco noto e lei era una tra queste. Ma in cuor suo non era più tanto convinta di voler andare avanti per sempre con quel mestiere. Lui stava per concludere brillantemente gli studi di medicina ed era all’inizio di quella che, aiutata da amici e parenti, sarebbe stata una fulgida carriera. Si era pure fidanzato, pareva seriamente. Quella volta furono particolarmente felici di trovarsi di nuovo. Si stavano chiudendo dei capitoli importanti nelle loro vite ed era arrivato il momento di scelte altrettanto importanti. O forse era solo il secolo che andava a chiudersi a smarrirli. Dopo aver parlato per la solita ora, lei gli propose di provare un nuovo tipo di massaggio, fatto con tutto il corpo. Un “servizio” nuovo che voleva mettere a listino. «Ma non mi tolgo tutto, non ti credere» disse lasciandolo un attimo. Lui titubante la attese in boxer sul futon nuovo, come gli aveva ordinato. La spiò entrare e togliersi l’accappatoio e nonostante lei fosse pur sempre intabarrata in mutandoni di una volta e in un reggiseno sportivo e spesso, la trovò abbagliante e preferì chiudere gli occhi, per non violarla nemmeno con lo sguardo. Dopo un massaggio canonico ma più oliato del solito, lei si posò con tutto il corpo su di lui. E iniziò a scivolargli sulla schiena, longitudinalmente. Aggrappandosi alle mani, intrecciate in una sensualità che le era nuova. Rimasero così, sospesi, per un sacco di tempo. Per la prima volta in silenzio. Lei cercava di concentrarsi sulla tecnica, non voleva deluderlo né cadere gambe all’aria. Non era facile, come non lo era non badare alla piacevole sensazione che i peli di lui le trasmettevano all’interno delle cosce. Lui non ci provò nemmeno a concentrarsi sul massaggio. Aveva pelle e pensieri solo per il gonfiore del seno e del pube di lei che gli rotolavano sopra. Niente però in confronto al momento del girarsi. Effettuarono la manovra e rimasero immobili, speculari, a sentirsi, guardarsi, annusarsi.  Era troppo bella, profumata, morbida per pensare che quello si sarebbe potuto risolvere solo in un massaggio. Ed erano troppo vicini stavolta, a solo due strati di stoffa di distanza. Finché qualcosa di invadente e duro si inserì tra loro. A quel punto l’imbarazzo ebbe la meglio sulla tecnica e sulla passione, risolvendo tutto in una risata forzata. Non era ancora pronta per quel tipo di massaggio, doveva ancora studiare e lavorare su sè stessa, si disse rivestendosi e salutandolo. Ma perché allora proporglielo? Forse perché era lei, stavolta, ad essere un po’ gelosa della sua ragazza.
 
Una volta, stupito della sua perseveranza, glielo chiese: «Ma ti piace il tuo lavoro? Perché lo fai?»
«Dimmelo tu, perché fai il chirurgo?».
«Non lo so, la vita è andata così. Direi perché mi piace far star bene la gente. E perché guadagno molto».
«Ecco, per me è lo stesso».
In effetti tutti e due maneggiavano corpi e cuori, provando a curarli. E tutti e due erano applauditi e ben pagati non solo per la bravura ma anche per l’empatia che sapevano mostrare. Non c’era differenza. Non glie lo chiese più.
 
Passarono altri anni, altri Natali e altri massaggi. Sempre nello stesso posto e alla stessa ora. Tranne una volta, nel 2004, quando lui si dimenticò e arrivò con due ore di ritardo, trovandola in lacrime. E facendosi perdonare svelandole, per la prima volta, il suo vero nome. O nel 2008 quando lui arrivò sì puntuale, ma per farle una lavata di testa indicibile e andarsene senza neanche entrare. Tre mesi prima si erano incontrati per caso, in fila al supermercato. Lei lo aveva salutato, nonostante lui fosse palesemente con moglie e due marmocchi. E se lo avessero scoperto? Non doveva succedere, a lui che ogni 25 dicembre pomeriggio si inventava la scusa del turno in ospedale e rischiava tutto per andarla a trovare. Lei lo inseguì per strada, riuscì a convincerlo e si fece perdonare con un Nuru leggendario che, non si sa come per il freddo o per i ridicoli capitomboli, riuscirono a mantenere casto. 
 
Gli anni sono passati veloci, come momenti. Lei è cambiata, soprattutto dentro, ma si è mantenuta in gran forma e se non fosse per i capelli, le unghie curate e la lingerie da favola sembrerebbe ancora la ragazza di allora. È stata fortunata, pur facendo un lavoro rischioso sono stati pochi gli episodi spiacevoli. Sono invece tante, tantissime le persone che ogni giorno la cercano, disposte a tutto pur di accedere ad un’ora con lei. Lei che, grazie anche ad Internet, è diventata una star di quello che i tempi hanno chiamato massaggio emozionale. Ha guadagnato molto; lo studio è sempre lo stesso ma ora è suo, arredato in maniera elegante, con specchi e vasche da mille e una notte. Ci lavorano altre due giovani ragazze che la chiamano Maestra, una è promettente, con le giuste dosi di umiltà e passione. Peccato che la più richiesta sia l’altra, quella più carina. Ha anche una casa tutta sua, ricolma di libri, gatti e foto di sua madre. E una casetta al mare, un’auto per andarci avanti e indietro quasi ogni domenica e un conto in banca da poterci vivere per qualche anno. Perché ormai ha deciso, presto smetterà e farà altro. Dopo aver fatto stare bene migliaia di persone ora tocca a lei, tra poco si dedicherà solo a sé stessa e a chi il destino le porterà gratis.  Lui due anni fa è stato lasciato dalla moglie, scappata a Londra con un nuovo lui portandosi dietro anche i ragazzini. Non sta male, anche se la vita ha iniziato a lasciargli qualche segno. Ha reagito alle avversità in maniera banale, buttandosi sul lavoro, comprandosi una Porsche e riallacciando con i pochi amici rimasti vitaioli. Senza mai chiamarla, era l’unica sicurezza che gli era rimasta. Nonostante il passare del tempo sono riusciti a rispettare l’appuntamento, vedendosi una volta l’anno, solo quel giorno, a Natale, alla stessa ora. Per un massaggio che non è mai, da vent’anni, solo quello. È aprirsi come in nessun altro momento, è toccarsi come con nessun altra persona, è crescere come in nessun altro giorno dell’anno. Concedendosi quasi tutto, una bottiglia di champagne, una poesia, una stecca di cioccolato, una foto quasi nudi, una barzelletta sconcia, ma sì ogni tanto anche un bacio e una cannetta. Ma sesso mai. Come a rispettare un impegno mai preso. Lo desiderano, certo, tantissimo, ma lo temono altrettanto. Chi lo sa, potrebbe rovinare tutto, essere una delusione o una cosa troppo bella da non poter resistere per un anno intero senza. Hanno sempre pensato che il sesso avrebbe potuto porre fine alla loro incredibile storia, o al contrario legarli indissolubilmente, facendoli però rimpiangere di aver buttato in altro 20 anni della loro vita, Natali esclusi.
 
Ma le ultime volte è stato molto più difficile resistere. Soprattutto per lui che da tempo aveva scoperto e visto fiorire il seno rigoglioso di lei e non riusciva più a non indugiarvi lungamente con le mani e la bocca. Era difficile anche per lei. Lei che ogni volta faceva di tutto per farlo addormentare per potersene stare lì tranquilla a guardare il corpo nudo di lui e ad accarezzare segretamente quel pene che, lo sapeva, desiderava baciare e avere dentro di sé da quella prima volta che lo sentì sul lettino. Ma alla fine, stoici, avevano sempre resistito: «Dai, la prossima volta, promesso, o quando saremo vecchietti» ci scherzavano su.
 
Forse anche per questo l’ultimo anno per lui è passato molto più lentamente degli altri. Ha pensato a lei ogni giorno, si è fatto male guardando la sua pubblicità su Internet. Una volta a luglio, di fronte alla vertigine dei cinque mesi che avrebbe dovuto ancora aspettare, con fare da pazzo si era messo in testa di presentarsi a sorpresa da lei; per poi rinsavire e tornare sui suoi passi quando era a nemmeno 100 metri dalla sua porta.
Ma adesso è lì, in cima alla scaletta, puntuale ed emozionato come e più delle altre volte.
Elegante, profumato, addirittura coi fiori. È il loro momento e niente e nessuno può portarglielo via.
Scende piano e suona. Ma stranamente il campanello di solito cinguettante stavolta tace. Riprova. Una, due volte. Niente, da dentro nessun rumore. E anche bussare si dimostra inutile. Stupito, tira fuori il telefono e prova con il vecchio numero a 6 cifre. “Spiacenti, il numero non è attivo”. Si guarda intorno incrociando lo sguardo di qualche passante. Cos’è uno scherzo? Prova a girare il pomello di ottone e…la porta è aperta! … ???... Entra e se la chiude alle spalle anche se dentro è buio pesto. Tastando a casaccio trova l’interruttore ma niente da fare, staccato. Resta un attimo lì ad aspettare, come quella volta che gli fecero una festa a sorpresa ma qualcuno lo aveva informato prima. No, stavolta non c’è in programma nessuna festa. La chiama, prima sottovoce, poi quasi urlando, ma la voce rimbomba tra le pareti senza trovare risposta. Mano di nuovo al cellulare, la cui luce vien bene per fare qualche passo senza picchiar dentro in qualcosa. E per vedere che lì intorno non c’è più nulla contro cui picchiare. L’appartamento è vuoto, solo fili elettrici penzolanti in alto e calcinacci per terra; niente più specchi e quadri alle pareti, solo una delle sue vecchie mensole che forse aveva montato lui anni prima solitaria alla parete. L’ansia lo spinge a tentoni verso la stanza dei massaggi. Ora sembra una cantina, peggio una grotta per come è umida e desolata. Niente mobili, niente tende, nessun giaciglio. Solo l’attaccapanni nell’angolo della svestizione, una vecchia scatola di oli da massaggio abbandonata per terra e la cara vecchia sedia di vimini. L’unica cosa che riconosce, su cui si siede, per disperazione e per trovare conforto almeno in un rumore familiare. Non c’è più… se n’è andata… come è possibile? Pensa, o forse dice a voce alta, non lo sa. Il cuore batte all’impazzata, fa freddo ma suda. E se fosse morta? O se, peggio ancora, avesse mollato tutto per scappare con un cliente? Lo smartphone di ‘sti tempi è la salvezza per tutto. Digita Massaggiamilano sul browser, una volta c’era una sua inserzione con un numero di cellulare, ne era certo. Non se l’era mai segnato, per non cadere in tentazione di usarlo. Elenco centri… mappa… annunci… niente di niente! Tolto, cancellato. «Ma dove cazzo sei andataaaa?» urla lanciando via il cellulare. Resta lì seduto, attonito, il suo respiro affannato e il cuore che rimbomba sono gli unici rumori che si sentono. Poi la rabbia lascia spazio all’angoscia, un peso di cemento nel petto. «Mi hai abbandonato anche tu - mormora mentre gli occhi si bagnano - se sei mai esistita…» come un bambino che scopre improvvisamente che Babbo Natale è solo una favola.

China la testa e si spegne insieme alla luce del cellulare lontano sul pavimento.
Buio vero, occhi aperti o chiusi è indifferente, tanto vale chiuderli.
 
Finché, dopo un tempo imprecisato, un minuto o forse un'ora, qualcosa gli precipita sulla testa e lo sveglia da quel torpore disperato. «Ma… che cazzo è?» Qualche attimo per ricordarsi dove si trova. È qualcosa di stoffa, jeans, con attaccati degli affari di ferro. Sfocata dalle lacrime là in fondo appare una luce flebile, tremolante, come di una candela. Proviene da un’altra stanza che non conosceva, come una stanza segreta, ci si entra dal lato della parete dove una volta c’era un grande specchio. Si alza di scatto ma i passi poi sono titubanti. «Chi c’è?!  C’è qualcuno?!?». Il piede si impiglia in qualcosa, che raccoglie. Un reggiseno sportivo, spesso. E lì, sull’uscio dell’altra camera, dove la luce è un po’più forte, delle mutande, che raccoglie prima di affacciarsi. Mutandoni di una volta, quella volta.

E sdraiata in un bagliore caldo e voluttuoso…«Buon Natale, stupido».

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